Carissimo,

Venerdì sera sono stata di nuovo invitata dai Bocatas ad andare in stazione Garibaldi. Il mio amico Carlo non smette di mandarmi l’invito ed io non smetto di rispondere di sì. Premessa non sufficiente comunque a farmi muovere perché, ad un certo punto, venerdì sera si é messo a diluviare ed io mi son detta che se non smetteva io non ci sarei andata, mi sarei solo inzuppata e poi per cosa? Certamente non muoiono di fame se io non ci sono, ce ne é fin troppa di gente là. A che servo?…. Il primo imprevisto è stato che la pioggia ha smesso di venir giù. Ecco ora la questione richiedeva un affondo ulteriore. Rimaneva infatti la questione della mia utilità. Ed un pensiero ha attraversato, demolendola, la mia presunzione di essere al centro dell’universo, guardare me stessa, sempre e comunque in termini di misura, che é il primo sintomo di come guardo tutto, misurando e incatenando la realtà a ciò che riesco a vedere. Il pensiero è stato di quelli di cui sono capace io, diretto, un po’ cattivo e tranchant: “Dona a loro non gliene frega un emerito cazzo di cosa riesci a dare, stanno sereni. L’utilità è per te! Se ti interessa di te, se un minimo di affezione a te stessa ti è rimasto, alza il culo, altrimenti non triturare i maroni e vivi serena. Ricordi l’unico comandamento che ti sei riproposta di seguire? Fai quello che vuoi ma fallo con gioia, dai quello che ti senti, ma dallo con gioia!” Ecco che mi ritrovo ad allacciarmi le scarpe e con il culo fuori dalla porta: il desiderio di me stessa, lo struggimento per quella me, la mancanza di me stessa ha avuto la meglio.

Arrivo e qualcuno mi saluta, evidentemente sto diventato un volto familiare, qualcuno mi chiede il nome, certo alla terza volta é un bel traguardo, incrocio sorrisi, soprattutto occhi che sorridono, ma che c’avranno da sorridere?, che mi scaldano il cuore e la sensazione che siano loro a fare qualcosa per me, diventa sempre più una certezza. Io comincio a chiedere di tizio e caio che non vedo, in particolare non vedo Mustafa’, la mascotte del gruppo, onnipresente a tenere pulito il piazzale, con una storia drammatica alle spalle ma che ora respira, pur dentro le medesime circostanze di prima, ed è un punto di riferimento per molti. Mi dicono che é stato ricoverato in ospedale, si è beccato non so cosa ma deve essere una cosa seria. Faccio due chiacchiere con Roberto, il capo, e Achille, un veterano di Bacatas, uno che si attiva tantissimo, generosissimo ed io lo guardo con ammirazione. Mi racconta del problema del reperire le scarpe che sembrano essere il bene primario dopo il pasto, un po’ perché sono lo strumento essenziale per chi vive per strada e un po’ perché alcuni ne fanno incetta per rivenderle. Giustamente mi fa presente che la cosa lo infastidisce e quindi rifiuta di dare seconde paia a chi fa il furbo. Penso, intanto che mi parla, che ha ragione da vendere ma anche che forse sfugge qualcosa. Ma non faccio in tempo a dilungarmi su questo pensiero che sento un gran fracasso dietro di me: dalla strada vedo arrivare, in un evidente stato di alterazione da alcol, insomma completamente ubriaco, il mio amico Vladimir, russo di nazionalità e sordomuto dalla nascita. È strano, lo chiamo amico ma é solo la seconda volta che lo incontro. La prima volta, ci ha fatto incontrare la lingua dei segni: lui con la sua voglia di comunicare, farsi capire ed io con la mia di sentirmi utile. Questa volta lui ha solo voglia di provocare e disturbare, prende di mira chi sembra essere il candidato ideale, un rumeno, credo, altrettanto aggressivo che non ha certamente voglia di porgere l’evangelica “altra guancia” e come prima risposta gli lancia uno sputo, per poi lanciarsi addosso con il resto di sé, placcato a mo’ di wrestler da uno dei ragazzi di Bocatas. Privato dello sfogo fisico inizia ad inanellare una serie di insulti, perlopiù all’indirizzo della madre russa. La situazione é molto concitata ed io me ne sto ben alla larga da sputi, calci e pugni. Si respira sulla strada una aggressività che fa da contraltare ad una improvvisata festicciola di compleanno sulla piazzetta, al riparo e protetta dagli uomini. Fuori dalla comfort zone, sulla strada, c’è un pazzo che grida con il tipico suono sgradevole e gutturale dei sordi e fa gestacci all’indirizzo di chi gli fa segno che se ne deve andare, uomini con le mascherine sul volto che non verranno mai capiti da uno che non può sentire e che a tratti si mette una mano sul cuore e fa un gesto che mima lo stritolamento e lo strappo, accompagnato da una espressione di dolore sul volto, gesti ed espressioni che devi essere attento per coglierli perché confusi con gesti violenti, come il segno di tagliare la gola e il solito e volgare dito medio e uno sguaiare da pazzo. Per ben 4 volte sento qualcuno che dice: “ci vorrebbe qualcuno che lo capisca questo tipo”. C’è una ragazza vicino a me a cui viene rivolta direttamente la domanda, evidentemente perché conosce la lingua dei segni ma si difende dicendo che é alle prime armi e rinuncia. Io, che mi tenevo ben in disparte, lontana dalle rogne, dico fra me e me: “ok Gesù ho capito, io ci vado ma devi fare tu tutto..”

Mentre mi avvicino a Vladimir, con la coda dell’occhio mi accorgo che Carlo e Roberto sono alla mia destra e alla mia sinistra, non sono sola. Mi abbasso la maschera e comincia con Vladimir questo dialogo di occhi, mani e espressioni del volto che sono la grammatica della lingua dei segni. “Ciao, ti ricordi di me?”, “Sì”, annuisce lui che ha gli occhi lucidi e iniettati di sangue, e mi ribadisce che taglierà la testa al rumeno, al tipo che gli ha intimato di andarsene e non so a chi altro ancora, insomma una strage, ma, chissà perché, mi pare solo tanto cinema. Io gli faccio il segno di guardare me, di fissare i suoi occhi su di me, non su di loro che non gli vogliono bene. Gli dico:
“guarda me e dimmi cosa vedi?” Glielo devo ripetere più di una volta e quando si convince a rispondermi, guardando solo me, si mette le mani sul volto, il suo viso si addolcisce in una espressione di tenerezza e si mette a piangere. Mi blatera qualcosa che non capisco, fa il segno di una croce come ad indicarmi la morte, la morte di qualcuno ma non riesco a capire perché sottintende qualcosa che non conosco. Devo starci attenta e immedesimarmi in lui, so che lui è molto legato a Mustafa’, è l’unico che lo capisce, Mustafa è stato male, insomma mettiamo insieme i pezzi e con Carlo capiamo che lui sta dicendo che il suo amico Mustafa’ è morto. È convinto che lo abbiano drogato e ucciso, blatera, fomentato da non so quali fantasie. Capisco ora il gesto della mano che si strappa il cuore dal petto: piange disperatamente per un amico che crede morto. E per gente così il modo di reagire è la bottiglia per affogare il dolore e l’aggressività per sfogare la rabbia. Ed io penso che io sono esattamente come lui. Come se non bastasse arriva una altro rumeno a dirmi di dirgli che gli taglia la testa se continua a fare lo stronzo. Mi rendo conto della situazione paradossale. Io gli rispondo che non mi metto certo a tradurre una cosa del genere e cerco di spiegargli cosa ha spinto Vladimir a fare quella piazzata: lo invito cioè a guardarlo con una profondità come vorrebbe anche lui essere guardato. E come vorrei anch’io perché “non ti è capitato mai di uscire di testa per un amico che sta male e non trovare altro modo di cercare uno che ti ascolti che fare un gran casino?” Mi guarda in silenzio, pare non capire una sola parola di quello che gli ho detto e in tutta risposta, mi ribadisce che il russo finirà male se continua così. E se ne va. Rimasti di nuovo da soli, cerco di rassicurare Vladimir: “il tuo amico non è morto! È in ospedale e stiamo cercando con Roberto di avere notizie e ti faremo sapere se magari si può andare a trovarlo”. Ma di tutto questo lui rimane attaccato alla prima parte, “il tuo amico non è morto”, e mi guarda con occhi che passano dallo stupito al serio: “davvero? Giura!” Mi domanda perentorio quasi minacciandomi ché su questo non si scherza. Ed io: “ti dico quello che mi hanno riferito”. Nel frattempo ritorna il rumeno che voleva “far la festa” a Vladimir e mi pare di essere già abbastanza provata dagli eventi per poterlo sopportare. Ma sembra esser sceso a più miti consigli, tira fuori dalla tasca una scatola di vitamine con la scritta “cardio” e mi dice : “sai anch’io sono malato di cuore, non solo lui, devo prendere queste medicine”. Mi viene da ridere ma mi trattengo e gli dico: “anch’io sono malata di cuore, come te e come Vladimir”.

Mi giro e vedo che siamo arrivati alla fine della serata, Roberto è in mezzo al cerchio a leggere un brano del Gius e poi invita Carlo a iniziare il Regina Coeli. Vladimir, mi passa davanti per entrare dentro il cerchio e fare il pagliaccio, salvo mettersi in riga vicino a una bella ragazza e in silenzio, lui, che non sente nulla, capisce che si sta pregando, ora sta a guardare rispettoso e con la coda dell’occhio si luma la bella ragazza in parte. È tornato il Vladimir che ho conosciuto 2 settimane fa. Non riesco a non pensare a lui che per gran parte del tempo è rimasto sulla strada fuori dal cerchio di questa compagnia, un po’ tenuto fuori anche perché ritenuto un disturbatore, finché non si è iniziato a guardarlo diversamente, più in profondità, superando la superficie della violenza e andando a toccare il suo cuore, rischiando di tirar giù la maschera che normalmente teniamo, come teniamo il nostro cuore, al riparo dalle tempeste, perdendoci l’occasione di conoscere l’essere delle cose. E poi son bastate quelle parole, “il tuo amico non è morto”, perché lui balzasse dentro il cerchio di questa compagnia che comprende non solo me ma anche chi poco prima lo aveva fatto oggetto di sputi e insulti. Ed io, che sono fatta oggetto di questa scoperta di me stessa, di che razza di attesa sono io, disfatta esattamente come questi alcolizzati, violenti e portatori di un dolore ancestrale che é l’incombere dell’ombra della morte su ogni cosa, su ogni relazione, su ogni affetto, io l’unica cosa che ho in più non è nemmeno il sì, ma la coscienza di questo sì. Guardo a tutto questo che supera ogni mia immaginazione e mi fa innamorare di questo dono meraviglioso che é la vita, la vita di Gesù risorto. Se tu glieLo chiedi, Lui si fa conoscere e rivela il Suo segreto, già ora, la vita eterna dentro l’istante che muore.

Il giorno dopo scrivo a Carlo:

“L’imprevisto è la sola speranza. Non per risolvere i problemi della vita ma per capire di che pasta siamo fatti, di cosa è fatto il nostro cuore e di che genere di risposta abbia bisogno. Ieri sera chi ha avuto occhi per vedere, lo ha potuto vedere. Voi di Bocatas siete consapevoli di che razza di cosa avete tra le mani?”

Donatella (Bocatas – Binario 10)