Una storia vera tra amicizia e filosofia.
I nomi usati nel testo sono frutto della fantasia di chi scrive.
Tutti i venerdì sera a Garibaldi un curioso gruppo di amici si ritrova attorno ad un tavolo. Ci sono i senzatetto e i volontari, vecchi e giovani. Ormai da un anno, affiancata da mio fratello, servo a loro la cena e ci facciamo compagnia cantando. Ho imparato a muovermi in una realtà così delicata e fragile, ormai è una situazione che mi sembra conosciuta, ci sono sempre degli imprevisti, ma in fondo, ne hai viste e sentite talmente tante che non ti stupisci più di niente.
Una sera dall’altra parte del tavolo, dove tutte le settimane compongo i “sacchetti” della colazione, intravedo due occhi scuri e brillanti. Non li avevo mai visti prima. Mi colpisce la loro gentilezza e gratitudine davanti alla mia mano che tende una banana, uno yogurt e delle brioches. La loro brillantezza svanisce, passa al tavolo successivo dove viene distribuita la cena. Il lavoro continua febbrile: tanti hanno fame e i sacchetti vanno riempiti. “A me metti la mela”, “io due yogurt per favore, però non all’albicocca. Quella non mi piace”. Finita la distribuzione mi metto a cercare. Dove sono finiti quegli occhi scuri? Li ritrovo in un angolo in disparte, sospettosi, mi avvicino con discrezione. Sono incorniciati da una figura magrolina con la pelle bruciata dal sole, e delle ciocche di capelli ribelli che sfuggono dalla bandana: Marta. Iniziamo a chiacchierare. Mi chiede di raccontarle di me, allora le dico che studio filosofia. I suoi occhi si illuminano. “Anche io ho studiato filosofia, è la cosa più bella che abbia mai fatto”. Scopro che Marta ha fatto la mia stessa università, abbiamo avuto gli stessi professori, abbiamo letto gli stessi libri e amato gli stessi autori. Mentre mi racconta dei suoi anni in università i suoi occhi si accendono sempre di più. Allo stesso tempo sul suo volto compare un sorriso dal fondo amaro. Sembra mi stia raccontando di un amore di gioventù, che il tempo tiranno ha ormai consumato. Mi chiede della mia tesi, le racconto che sto studiando un’autrice francese (non mi aspetto che la conosca, non la conoscono nemmeno i miei professori). I suoi occhi brillano e con voce commossa esclama: “mi fa compagnia da anni. Lei sa cosa vuol dire soffrire e ha amato tanto”. Ne parla come di un’amica, come se fosse lì con noi sotto i palazzi di Gae Aulenti, sui binari di Porta Garibaldi. Qualcosa in Marta si è sciolto, inizia a raccontarmi con incredibile fervore e tenerezza della sua conversione a seguito della lettura di “Attesa di Dio”, il libro del racconto dei dubbi e delle reticenze di Simone Weil rispetto alla fede. Ma è anche il libro dove si intuisce il suo struggente bisogno di amare, e della sua concezione dell’amore dipinto tale purezza da sembrare alieno a questa vita. Il nostro dialogo continua tra Hegel, Kierkegaard e la filosofia contemporanea. Mi sembra di stare in una bolla perché niente di quello che sta accadendo sembra poter centrare con la sporcizia della strada e con la povertà che ci circonda.
Torno a casa frastornata e commossa. Non riesco a dormire. Mi sembra tutto così ingiusto: cosa ci fa una creatura così pura in mezzo alla sporcizia e alla pattumiera della strada? So benissimo che le persone che incontriamo hanno una storia che merita di essere ascoltata, ma quella donna potrei essere io tra vent’anni, forse nessun’altra volta c’era stata un coinvolgimento emotivo così grande. Ripenso a tante cose che davo per assodate e rimango inquieta.
Durante la settimana aspetto con agitazione il prossimo turno ai “sacchetti” della colazione. Arriva il venerdì sera e di Marta nessuna traccia. Sono già un po’ delusa, avrei voluto tanto rivederla. Poi, improvvisamente, la sua figura minuta si fa largo tra lo stuolo di persone che affollano lo spazio. Finito il turno la raggiungo e ricominciamo a chiacchierare. Continua a ripetermi che devo essere consapevole di avere avuto una grande fortuna a studiare filosofia, perché “una volta che studi certe cose, ti si piantano dentro, e niente di ciò che potrà capitarti te le porterà via. Una volta filosofi lo si è per sempre. La bellezza e la grandezza della mente e dell’animo umano non si possono dimenticare”. Mi racconta su cosa avrebbe desiderato scrivere la tesi che purtroppo non ha mai concluso. La sua voracità di sapere e la sua cultura ampissima mi sorprendono ogni minuto di più. Mi mostra il suo zaino, che custodisce gelosamente (è terrorizzata che possano rubarglielo): è pieno zeppo di libri, alcuni che traduce mentre legge perché non ha trovato la versione in italiano. “Per rimanere me stessa devo continuare a studiare, a leggere, altrimenti mi spengo”.
Ormai dalla diffidenza del primo incontro si crea un rapporto più stabile, quasi si fiducia. È difficile stare con lei, a volte la prende una tristezza che le pesa sulle spalle come un macigno, non riesce a raccontarti da dove arriva. Nonostante ciò si preoccupa per me come una sorella maggiore, una sera vuole che le faccia conoscere il mio ragazzo perché deve assicurarsi che mi voglia effettivamente bene. Dopo averlo studiato un po’ arriva la sentenza: è a posto. Così dà la sua benedizione; è così contenta.
Nelle ultime settimane però c’è qualcosa che la turba ma che si tiene dentro. Marta è sempre più irrequieta, una sera mi dice che andrà a trovare un parente, lontano dalla città perché vuole stare nella natura. A furia di stare sul cemento le manca la terra. E anche un affetto più sincero dei personaggi ambigui che ultimamente le girano intorno. Mi dice quindi che per le prossime due settimane non ci vedremo. Prima che parta le porgo un libro di Kierkegaard di cui avevamo parlato, lo prende con un sorriso stanco. “Finalmente lo posso rileggere. Posso sottolinearlo? Mi aiuta a memorizzare le cose”. Ci diamo appuntamento al suo ritorno per vederci e per discutere del libro.
Passano due settimane, ma il venerdì sera Marta non c’è. Provo a chiamarla: nessuna risposta. Il venerdì seguente stesso copione. Provo con una telefonata, ma niente. Inizio a preoccuparmi. Dove sarà finita? E se le fosse successo qualcosa? Il fatto di averla vista strana prima che partisse non mi rasserena per nulla. Che fosse uno spirito libero e un pizzico imprevedibile lo sapevo, ma non riesco a togliermi dalla testa la sensazione che tutto ciò non vada bene.
Aspetto.
Nell’attesa del suo ritorno mi scopro più predisposta e interessata ai nuovi arrivati che si affacciano al nostro tavolo per chiedere del cibo. L’imprevedibilità dell’incontro con Marta mi ha risvegliato da un attivismo che stava diventando ordinario. Scopro che tra di loro c’è un anziano serbo appassionato di musica classica con cui si può discutere per ore se sia meglio La Bohème o La Turandot. Tutte le sere mi saluta togliendosi il capello come un vero gentleman e prevede il tempo del weekend, in base al dolore che sente al ginocchio. “Questo weekend piove, ti tocca studiare”, ride. Oppure un ragazzo esperto di tecnologia che mi consiglia quale modello di telefono comprare. Vengo anche a sapere che Giuseppe, uno dei nostri amici storici, da giovane era un promettente ciclista. Insomma, nonostante il dispiacere ho davanti un mondo multiforme ed eterogeneo che aspetta solo di essere scoperto e questo mi ridà l’entusiasmo di andare ogni venerdì sera a fare i sacchetti.
Poi la scrittura della tesi si fa più intensa e il tempo stringe. Bisogna consegnare e mi manca ancora tanto da scrivere. Le settimane passano e mi capita di non presentarmi più il venerdì sera, devo studiare. Una sera verso mezzanotte, mio fratello torna a casa dopo essere stato a Garibaldi: mi porge un libro. “Marta ti cercava, voleva ridartelo”. Io rimango stupita. È tornata.
Non vedo l’ora di tornare a fare i sacchetti per poterla ringraziare e raccontarle cosa è successo in questi mesi durante la sua assenza, ma vengono scoperti i primi casi di Covid e il lavoro dell’associazione rallenta. Una volta iniziato il lockdown tutto è fermo e nessuno sa bene dove siano i nostri amici. Alcuni contatti telefonici e basta, non tutti rispondo e molti sono preoccupati. Marta non risponde al telefono, è sempre scarico perché prima veniva caricato grazie alla gentilezza dei negozianti. Tutt’ora non so dove sia, o se stia bene. Sono sicura che, una volta tornati alla normalità, sarà bello andare di nuovo in Garibaldi, consapevole che non sai mai chi ti potrà capire dall’altra parte del tavolo.